TE VI POR VEZ PRIMERA EN MEDIO DE LA SALA
[Era un día de sol. Terminé de dar clase en la Universidad de Palermo, donde estaba invitado. Pasé por delante del palacio normando. Bajé la cuesta hasta la Piazza Quattro Canti, con sus estatuas de los reyes de la Casa de Austria. Crucé Piazza Marina y entré en el Palazzo Abbatelis, cuyo Trionfo della Morte inspiró sin duda el Guernica de Picasso].
En medio de la sala mirabas hacia mí
y un leve gesto tuyo me detuvo.
No me atreví a entrar. Esa mirada. Ese silencio.
La mano detenida que detiene.
Mirabas hacia mí, pero no me mirabas.
Precisamente
me detuviste por que no interrumpiera
un mirarte a ti misma,
como si en tu interior buscases
una sensación nueva.
La otra mano, pudorosa, sujetaba el velo o manto que todas las mujeres
mediterráneas han llevado siempre. Pero no negro. No había luto en ti. Tampoco era
el velo de un azul que luego se ha llamado “purísimo”. Sino un azul metálico, como
de mujer activa, deseosa de hacer. No masculina, que tu rostro sumamente delicado
no me autoriza a decir eso.
El caso es que me detuviste, como pidiéndome que esperase antes de decirte algo.
¿Pero qué podía decirte, mudo? ¿Cómo mirarte, deslumbrado? ¿Cómo comprenderte,
lerdo?
Mudo, deslumbrado y lerdo
sólo pude pensar en una joven
renacentista,
hija de algún burgués de ciudad italiana,
adolescente cuyos padres
hacían retratar por que su rostro,
tan bellísimo siempre,
con la virginidad que ofrece la juventud eterna,
presidiera una sala, un dormitorio.
Quise conocerte mejor. Desobedeciéndote, avancé y leí que eras algo más que un
rostro, algo más que una mano pidiendo que me detuviera, algo más que unos ojos
pensativos, algo más que una mano. Eras una Annunziata, esa compañía anunciada
cuyo encuentro esperamos siempre. Y entonces, ya no supe si era a mí a quien
ordenabas que se detuviese.
Annunziata. Existe el nombre en italiano, como el español guarda para algunas
hijas el nombre de Anunciación. Pero no anunciabas nada, al contrario, pedías que no
hubiera novedad alguna, que nada cambiara en ti o te cambiara. Temerosa.
Los cuadros de la Anunciación suelen tener dos personajes. Un ángel que llega,
que está, que habla, que ha hablado y que espera una respuesta. Una joven a veces no
tan joven, ya ancha de caderas en ocasiones, o casi una niña sorprendida que
responde, que ha respondido. Y, de nuevo, uno habla, otra contesta, se entabla un
diálogo, se expresa incomprensión, se afirma. Se acepta. Se obedece. “Hágase en mí
según tu palabra”. Se calla.
Pero tú estabas sola. Sin ángel alguno. Sola, recogida en ti misma. Leías. Algunos
pintores quieren verte rezando, otros asustada, muchos con una cesta de costura. El
ángel nunca te sorprendió haciendo la comida, fregando, laborando, recogiendo la
cosecha. Alguien aseguró sin embargo que, cuando llegó el viajero, sacabas agua del
pozo, o tejías, pero inmediatamente se declaró apócrifo el testimonio. Los nobles no
trabajan. Tampoco las madres de los dioses. Zeus no lo permite.
El caso es que el ángel busca invadir tus aposentos, inundar tu soledad, distraer tu
ensimismamiento, conquistar tu pequeño territorio. En ese refugio, tal vez una cortina
esconda tus cosas. A veces, incluso vemos el lecho aún caliente y sin hacer. Te has
levantado pronto, inquieta por seguir la lectura empezada. De nuevo los clérigos
afirman que en el libro dice: “He aquí la virgen que dará luz a un niño”. No puede ser.
No pudo haberse escrito lo que no ha sucedido aún. ¿O sí? Te miro y no sé si veo a
una joven del año 33 antes de Cristo, o a una joven de 1476, cuando Antonello da
Messina te retrató, o de ahora mismo, cuando tú y yo nos miramos con la
complicidad de quienes se entienden.
Sé bien que leías a Catulo, pues a través de él pensabas en el joven que te ayudó
con el agua del pozo.
Lo creo semejante a un dios.
Más aún me parece que supera a los dioses
aquel que, frente a mí,
me contempla y escucha cada día,
con su sonrisa dulce.
Una dicha que roba mis sentidos.
O bien Antonello te llevó los poemas de Petrarca, una luz nueva para iluminar el
amor que te cercaba. “Cosí sol d’una chiara fonte viva…”
Y sólo de una fuente viva y clara
mana lo amargo y dulce que me nutre,
Y ya por mi mal no se termine:
mil y mil veces muero y nazco al día.
Tanto de mi salud me encuentro lejos.
Tal vez hoy —yo lo quisiera— el libro apoyado en el atril es un breve libro mío,
que recoge mi emoción al encontrarte y luego hablar contigo. Que buscó en la
escritura comunicar la paz que comunicas o esa mirada esquiva que me olvida cuando
cambio de sala en el museo.
El tiempo se ha licuado y, si me pierdo, tú permaneces siempre en esa espera que
el libro esconde para siempre.
Jorge Urrutia
23 de abril de 2021
TI VIDI PER LA PRIMA VOLTA IN MEZZO ALLA SALA
[Era un giorno di sole. Avevo finito la lezione all’Università di
Palermo, dove ero stato invitato. Sono passato davanti al
palazzo normanno. Sono sceso per la strada fino alla Piazza dei
Quattro Canti, con le sue statue dei re Asburgo. Ho attraversato
Piazza Marina e sono entrato a Palazzo Abatellis, dove c’è i
Trionfo della morte che sicuramente ha ispirato il Guernica di
Picasso].
In mezzo alla sala guardavi verso di me
e un tuo lieve gesto mi ha fermato.
Non mi sono deciso a entrare. Quello sguardo. Quel silenzio.
La mano trattenuta che trattiene.
Guardavi verso di me, ma non mi guardavi.
Precisamente
mi hai fermato affinché non interrompessi
un guardare te stessa,
come se al tuo interno cercassi
una sensazione nuova.
L’altra mano, riservata, sorreggeva il velo o mantello che tutte le donne mediterranee hanno
sempre indossato. Ma non nero. Non c’era lutto in te. Ma il velo non era neanche dell’azzurro che
dopo si è chiamato “purissimo”. Ma un azzurro metallico, come quello di una donna attiva,
desiderosa di fare. Non mascolina, il tuo volto estremamente delicato non mi autorizza a dire
questo.
Si da il caso che mi hai fermato, come per chiedermi di aspettare prima di dirti qualcosa. Ma, che
potevo dirti, muto? Come guardarti, abbagliato? Come comprenderti, sciocco?
Muto, abbagliato e sciocco
ho potuto pensare solo a una giovane
rinascimentale,
figlia di qualche borghese di città italiana,
adolescente che i genitori
facevano ritrarre affinché il suo volto,
sempre bellissimo,
con la verginità che offre la gioventù eterna,
dominasse una sala, una camera da letto.
Ho voluto conoscerti meglio. Ho disobbedito, sono venuto avanti e ho letto che eri qualcosa di
più di un volto, qualcosa di più di una mano che mi chiedeva di fermarmi, qualcosa di più di due
occhi pensierosi, qualcosa di più di una mano. Eri una Annunziata, quella compagnia annunciata
che speriamo sempre di incontrare. E allora non ho saputo più se ero io a cui ordinavi di fermarsi.
Annunziata. Esiste il nome in italiano, così come lo spagnolo destina a alcune figlie il nome
Anunciación. Però tu non annunciavi nulla, al contrario, chiedevi che non ci fosse nessuna novità,
che nulla cambiasse in te o ti cambiasse. Impaurita.
I quadri dell’Annunciazione di solito hanno due personaggi. Un angelo che arriva, che è là, che
parla, che ha parlato e che aspetta una risposta. Una giovane talora non tanto giovane, ormai con i
fianchi larghi in alcuni casi, o quasi una bimba sorpresa che risponde, che ha risposto. E, ancora,
l’uno parla, l’altra risponde, si intreccia un dialogo, si esprime incomprensione, si afferma. Si
accetta. Si obbedisce. “Si faccia in me secondo la tua parola”. Si tace.
Ma tu eri sola. Senza nessun angelo. Sola, raccolta in te stessa. Leggevi. Alcuni pittori ti
vogliono vedere mentre preghi, altri spaventata, molti con un cestino di cucito. L’angelo non ti ha
sorpreso mai mentre preparavi da mangiare, lavavi i piatti, pulivi, raccoglievi il raccolto. Qualcuno
ha assicurato, tuttavia, che quando è arrivato il viaggiatore, stavi prendendo acqua dal pozzo, o stavi
tessendo, ma immediatamente la testimonianza è stata dichiarata apocrifa. I nobili non lavorano.
Neanche le madri degli dei. Zeus non lo permette.
Si da il caso che l’angelo cerca di invadere le tue stanze, di inondare la tua solitudine, di
disturbare il tuo raccoglimento, conquistare il tuo piccolo territorio. In questo rifugio, forse una
tenda nasconde le tue cose. A volte, vediamo perfino il letto ancora caldo e disfatto. Ti sei alzata
presto, desiderosa di continuare la lettura che avevi iniziato. Di nuovo i chierici affermano che il
libro dice: “Ecco la vergine che darà alla luce un bambino”. Non può essere.
Non si può avere scritto quello che ancora non è accaduto. O sì? Ti guardo e non so se vedo una
giovane dell’anno 33 avanti Cristo, o una giovane del 1476, quando Antonello da Messina ti fece il
ritratto, o di oggi stesso, quando tu ed io ci guardiamo con la complicità di coloro che si capiscono.
So bene che leggevi Catullo, e attraverso di lui pensavi al giovane che ti aveva aiutato con
l’acqua del pozzo.
Lo penso simile a un dio.
ancora di più, mi sembra che superi gli dei
colui che, di fronte a me,
mi contempla e mi ascolta ogni giorno,
con il suo dolce sorriso.
Una grazia che mi ruba i sensi. 1
1 Quegli mi sembra simile a un dio,
quegli, se è lecito dirlo, mi sembra superare gli dèi,
che seduto davanti a te può spesso
vederti e ascoltarti
mentre dolcemente sorridi: felicità che a me sventurato
rapisce l’uso di tutti i miei sensi.
Oppure Antonello ti aveva portato le poesie di Petrarca, una nuova luce per illuminare l’amore
che ti assediava. “Così sol d’una chiara fonte viva…”
Move’l dolce e l’amaro ond’io mi pasco,
una man sola mi risana e punge.
E perché ’l mio martir non giunga a riva,
mille volte il dì moro e mille nasco;
tanto da la salute mia son lunge! 2
Forse oggi – mi piacerebbe – il libro appoggiato sul leggio è un breve libro mio, che accoglie la
mia emozione di quando ti ho incontrata e poi ho parlato con te. Che ha cercato di comunicare con
la scrittura la pace che comunichi o quello sguardo schivo che mi dimentica quando cambio sala nel
museo.
Il tempo si è liquefatto e, se mi perdo, tu rimani sempre nell’attesa che il libro nasconde per
sempre.
(Trad. di M. Caterina Ruta)
